La Nanoscienza: verso un nuovo umanesimo scientifico

All’inizio della seconda metà del novecento, Paolo Boringhieri scriveva che «la divulgazione scientifica è la pietra di paragone degli scienziati che riescono a comunicare le idee che stanno alla base della loro ricerca: non tanto il risultato particolare quanto la struttura mentale che condiziona tutta la ricerca scientifica».

L’editore piementose aggiungeva: «Solo se questo obiettivo è raggiunto la scienza diventa un fatto culturale, diventa un elemento che entra nell’orizzonte dell’uomo colto».

Combinando alcune tra le ventuno lettere del nostro alfabeto Boringhieri indicava la strada da seguire affinché lo sviluppo scientifico e tecnologico si traducesse in crescita culturale di tutti gli individui: «un umanesimo scientifico».

Allo stesso modo la natura, usando i mattoncini (elementi) che la scienza chimica ha schematicamente raccolto nella tavola periodica, esprime la sua poetica realizzando strutture più o meno complesse.

Il padre della lingua italiana compone con circa 9000 lettere i primi due canti della divina commedia, un numero pari a quello degli atomi che la natura organizza in una molecola come l’emoglobina.

Rispetto allo studio della prosa di Dante, il limite principale incontrato dagli scienziati nell’affascinate viaggio alla scoperta del’architettura delle cose è dato proprio dall’impossibilità di penetrare la materia fino ai suoi costituenti fondamentali. 

Alla fine degli anni 60 un fisico di nome Richard Feynman parlò per la prima volta della possibilità di manipolare direttamente atomi e molecole.  

In pochi anni si aprì uno scenario in cui avremmo potuto costruire utensili, macchine e congegni del tutto simili a quelli che normalmente utilizziamo, solamente un miliardo di volte più piccoli.

Alla fine degli anni 70 questo nuovo filone di ricerca venne battezzato nanoscienza, utilizzando il prefisso che nel linguaggio scientifico significa appunto un miliardo di volte più piccolo.

Il grande genio di Feynman fu un apripista per la scoperta di un “nanomondo” che da sempre era stato dominio esclusivo della natura; in seguito, gli straordinari progressi tecnologici ne hanno consentito l’esplorazione.  

All’inizio degli anni 80 un team di ricercatori riuscì non solo ad ottenere l’immagine di un singolo atomo, ma a scrivere con atomi di Ferro su una superficie di Nichel l’acronimo, IBM, della loro azienda di appartenenza.

Poche settimane fa ricercatori dello stessa compagnia hanno ottenuto immagini microscopiche di una rete tridimensionale di atomi di carbonio, il Grafene, riuscendo a descrivere come mai prima il legame chimico tra gli atomi.

Questi due esperimenti definiscono un arco temporale in cui i sogni di generazioni di chimici e fisici, che avevano solo immaginato di poter studiare e modulare le proprietà di poche centinaia, decine o addirittura di un singolo atomo, diventano realtà.

L’approccio “tradizionale” alle trasformazioni della materia ha come unità fondamentale la mole, definita come una quantità di sostanza in cui è contenuto un numero di Avogadro di particelle (6.022•1023), siano esse atomi o molecole.  

Se si prendesse una mole di mele e le si disponesse in modo omogeneo su tutta la superficie della terra, si raggiungerebbe un’altezza di circa cinquanta chilometri.

La nanoscienza offre un cambio di prospettiva radicale: la possibilità di mordere uno solo di questi frutti.

Questo approccio impone il superamento delle barriere tra le scienze della natura, la visione del mondo di chimici, fisici e biologi si fonde in unica, nuova, prospettiva.

Primo Levi scriveva che «l’abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà e il comportamento, conduce [..] ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio di non fermarsi alla superficie delle cose».  

Nel pieno compimento di questa intuizione è racchiusa la portata culturale della nano scienza, verso un nuovo umanesimo scientifico.

Fonte: Chimicare